Quello che in gergo si chiama il mio scaglione è stato l’ultimo – di una lunga serie che poi fortunatamente si è interrotta – a dovere allo Stato italiano un anno tondo, 12 mesi da destinare (ho fatto il conto, è parecchio di più dell’8 per mille della mia vita) alla Patria, pur se con la possibilità di scegliere se farlo con la divisa o senza.
Io scelsi senza, non perché io sia particolarmente pacifista, ma perché ero e sono convinto che le cose bisogna lasciarle fare a quelli che son capaci, e che se con tutta la loro spesa militare gli Stati Uniti fanno fatica a sottomettere un Paese del Terzo Mondo, figuriamoci noi. Per noi, come italiani intendo, l’epoca delle conquiste è passata da un pezzo, sin dai tempi dei Cesari, e in quanto Paese del particulare sin da quando in questo modo lo descriveva ill Guicciardini siamo proprio l’esatto opposto della truppa, tutta uguale e allineata.
E poiché quelli erano gli anni in cui il Guicciardini lo avevo studiato di fresco, fu così che finii in una casa di riposo, con l’illusione di utilizzare il mio tempo dovuto, se non per qualcosa di utile, almeno per qualcosa che non fosse del tutto privo di senso. Ma evidentemente non c’era proprio verso, e andò a finire che la mia buona intenzione di fornire un servizio civile fu invece utilizzata per scaricare gli enormi camion che tutti i giorni portavano alla casa di riposo derrate alimentari e pannoloni Tena. Cosa che alla struttura fruttava un bel risparmio in termini di manodopera e che a me ha insegnato una regola aurea: se potete scegliere, scaricate i pannoloni. Pesano molto, ma molto meno dello scatolame.
Lo raccontavo ai coetanei, quando i miei giorni di licenza coincidevano con i loro, e loro tornavano a casa dalle caserme quasi tutte di alpini (e quasi tutte cuneesi, chissà perché). Offrivo le mie storie, e la cultura che rapidamente mi stavo facendo su dosaggi ed effetti del Serenase che vedevo distribuire ai vecchietti con l’erogatore del selz, ma la loro aneddottica era senza dubbio di gran lunga migliore della mia.
Perché non ce n’è, le storie di naja sono imbattibili, sono un genere a se stante che trasformano un singolo anno in cent’anni di solitudine, solo molto più densi di quelli del romanzo di Marquez. Solitudine, e nostalgia, della logica in particolare. Storie di esercitazioni nel lancio della granata, ma usando un sasso, perché le granate costano, e con il pum fatto con la bocca al posto dello scoppio vero. Ed è meno stupido di quanto sembri, mi dicevano, perchè c’eran sempre quelli che il sasso riuscivano a tirarselo sui piedi, e se fosse stata una granata vera sarebbe stata una carneficina giornaliera. Storie meravigliose e affascinanti, di fucili in dotazione che avevano sparato ai tedeschi nella seconda, e pure nella prima guerra mondiale. E c’è da sperare che durino, hai visto mai che coi tempi che corrono ci tocchi sparargli ancora, ai crucchi. Storie di forniture alimentari pantagrueliche, comprensive di pescato così fresco che se ce l’avesse avuto François Vatel alla corte del Re Sole mica si sarebbe suicidato, ma che venivano saccheggiate da mogli di alti ufficiali tanto fameliche da lasciare alle truppe solo le razioni K, sapete, quelle pappe sigillate che scadranno nel 2145 e che i tedeschi di prima hanno lasciato indietro durante la ritirata dall’Italia nel 1945.
Ricordo una storia, esemplare, di un contingente mandato a supporto di una popolazione disastrata, colpita da mille guai e in ultimo anche da una certa siccità. Che con l’arrivo dell’esercito invece di alleviarsi si aggravò – come mi spiegò un amico che faticavo molto a vedere nel ruolo di fuciliere assaltatore scelto, ma che suo malgrado cercava di interpretarlo – in seguito alla scelta di allestire il campo a monte del paesello: tutti i giorni i militari scendevano a valle giù per le mulattiere polverose, e alla sera risalivano coi mezzi sporchi. Cosa semplicemente inconcepibile, cosicché tutte le sere li lavavano, lasciando ai civili là in basso nemmeno la consolazione di un bidet rinfrescante.
E poiché in questi giorni si parla molto di celebrazioni, mi sono improvvisamente ricordato di cosa parliamo quando parliamo di parate. Mi è tornato a galla il ricordo di quando un generale a tre stelle annunciò un’imminente visita ufficiale alla caserma in cui era temporaneamente ospitato il mio amico, e di come nel suo racconto quella venuta aveva trasformato in un amen la caserma stessa in un formicaio brulicante di attività, ma senza la contezza di una mission chiara quanto quella che, invece, le formiche in genere hanno. I sottoufficiali, che sono quelli scelti tra i soldati semplici – non per la loro simpatia, non per l’acume né per l’indipendenza di giudizio, da quel che ho capito – per convincere i loro pari a eseguire gli ordini dei più alti in grado, misero in moto una micidiale catena da lustro: alle scarpe, alle fibbie, ai pomi d’ottone, agli ottoni veri e propri della fanfara, e poi a tutto il resto. Quando venne il momento dei mezzi, aprirono un grande e polveroso hangar che conteneva qualche pesante, camionette e gipponi a volontà. Bisognava tirarli fuori, pulirli fino a farli luccicare, e allinearli con schema perfetto e marziale nello spiazzo, dove il generalissimo li avrebbe passati in rassegna. Uno per uno, i soldati li portarono alla luce del sole, per strofinarli vigorosamente dai fanghi stratificati in chissà quali remote campagne. Tutti, tranne una campagnola che non voleva saperne di partire: la chiave girava a vuoto, non si sentiva nemmeno un accenno di batteria. Con quello che poi si rivelò essere uno spirito d’iniziativa eccessivamente intraprendente, i soldati di leva di turno fecero ciò che un militare in carriera mai avrebbe tentato: aprirono il cofano e – sorpresa – scoprirono che era vuoto. Mancava il motore, ops. Corsero dal sergente per riferirglielo, e il sergente diede a quei civili momentaneamente in sonno una indimenticabile lezione di logica militare stricto sensu: emettendo barriti come un caribù nella stagione dell’accoppiamento, spiegò che l’ordine non era quello di mettere in moto i mezzi, men che mai verificare che fossero, chessò, funzionanti, operativi. L’ordine era quello di pulirli perfettamente, e di allinearli sotto il sole, ed era un ordine che andava eseguito così come era stato impartito. Punto. Così, i najoni tornarono nell’hangar, spinsero fuori il gippone, lo passarono con un barile di Argentil che manco lo si poteva adocchiare senza rischiare il distacco della retina, e lo allinearono agli altri col righello, in modo così preciso che a guardarli di profilo avreste detto che ce n’era solo uno.
Poi, il giorno dopo, arrivò il generalissimo. La banda suonò qualcosa di adatto all’occasione, i soldati marciarono a ritmo di passo e cadenza nel modo più convinto che gli veniva, i sergenti urlarono mitragliate di attenti e riposo, tutti si fecero dei gran saluti portando la mano destra di bianco guantata bella dritta alla visiera, poi il generale passò in rassegna i mezzi pettinatissimi e abbacinanti. Marciò come solo i generali sanno marciare davanti all’involucro scintillante di quella che un tempo era pur sempre stata una vettura dotata di motore a scoppio, e che al momento era solo un cartoccio di stagnola antiproiettile con spazi e temperature interne ideali per cuocere un intero maiale arrosto, infine si girò verso le truppe e – evidentemente soddisfatto di quanto aveva visto – disse: “Molto bene”.
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per la cronaca, il mio scaglione è l’ultimo che ha fatto 20 mesi di servizio civile.
il giorno che ho finito è uscita la sentenza della corte costituzionale che all’epoca lo parificava al servizio militare, cioè 12.
Venti mesi? Minchia, non parlo più.
sai com’è, all’epoca si incentivava il servizio…
in compenso ho un bellissimo ricordo dei “tre giorni”.
20 mesi pure io grazie a Spadolini…..
Furbetto, non hai detto delle gite al lago che ci siamo fatte e delle assistenti più giovani a cui ronzavi intorno (e che ti sei fatto poi?).
Ciao Paolone
…vedo che non hai dimenticato le mie memorie “armate” !!!!