27 GENNAIO 2012

Ho visto fabbriche

Ho visto moltissime fabbriche metalmeccaniche; ma una come questa di Pomigliano non l’ho vista mai. Non mi riferisco all’esercito dei robot del reparto lastratura, che compiono interamente da soli il lavoro più pesante e pericoloso: il montaggio e la saldatura della scocca, la struttura della Panda. Mi ha impressionato molto di più il resto della fabbrica, dove a operare direttamente sono le persone. La prima cosa che mi ha colpito è stata l’assenza di rumore, l’ampiezza degli spazi, la distribuzione della luce, l’azzurro della rete dei vialetti, con strisce spartitraffico e passaggi pedonali, che attraversano le zone di lavoro; gli uffici con le pareti di cristallo collocati in mezzo al percorso del montaggio, quasi a sottolineare il superamento di ogni distinzione tra operai e impiegati. Poi il serpentone giallo: la nuova “catena” che catena non è più, collocata su di un largo nastro di parquet tirato a lucido, che si sposta lentamente, dove anche a me estraneo viene consentito di muovermi liberamente nei larghi spazi tra una postazione e l’altra. Tutto è strutturato in funzione della persona che lavora: è la scocca ad abbassarsi o rovesciarsi, non le braccia ad alzarsi.
Pietro Ichino

Ichino ha visitato Pomigliano, descrivendola in modo molto simile ad alcune tra le fabbriche che, negli ultimi anni, ho visitato per lavoro, soprattutto in Germania. Anche se in genere non parlo mai di queste cose qui su Popolino, ne avevo scritto solo poche settimane fa, e se andate a rileggervi il finale di quel post noterete che la descrizione coincide, perché in effetti è accurata.
Quello che Ichino non scrive – e non so se l’ha notato, ma immagino di sì – è che quel modello di fabbrica lavora a regimi di produzione molto elevati impiegando pochissimi operai. E intendo proprio pochissimi, dettaglio che si nota subito entrando nei grandi capannoni quasi deserti. Pochissimi per l’idea di industria che abbiamo, quella dei cancelli di Mirafiori di un tempo, affollati di tute blu che attendono di timbrare il cartellino a inizio turno. Molto ben retribuiti, gli operai tedeschi, così bene da consentire loro di pagarsi i contributi necessari a smettere qualche anno prima dell’alta età pensionabile applicata in Germania. Ma intanto, dove lavoravano centomila ci lavorano diecimila, e dove ci lavorano diecimila ci lavoreranno mille, grazie a – o per colpa di – un’automatizzazione esponenziale che nessun luddista sarebbe in grado di fermare.
L’azienda che un tempo l’economia classica criticava per essere impalpabile, da cui la differenza tra software e hardware, la Microsoft, nei soli Stati Uniti oggi impiega 37mila persone, senza contare l’indotto creato dall’assistenza e dai reparti IT di cui ogni azienda di dimensione almeno media deve dotarsi. Alla famosa – e famigerata – Foxconn, l’azienda cinese che produce per conto di Apple e di tutti i principali marchi di elettronica consumer del mondo, e che è comunque anch’essa altamente automatizzata, ogni giorno entrano in una sola delle sue fabbriche 330mila operai: un terzo di milione di persone, per dire. E di iPhone, solo nel 2011, ne sono stati venduti 37 milioni di pezzi, il 128 per cento in più rispetto al 2010. I dati di vendita delle Case automobilistiche, anche di quelle molto sane, sono tutti un po’ più relativi, nel migliore dei casi. In quelli peggiori segnano meno dieci, venti, trenta e anche quaranta per cento. Perché il mercato va così da tempo, e tutti sono d’accordo nel dire che non tornerà mai più ai livelli di una volta. Costruire auto belle e desiderabili, magari innovative e a basso impatto ambientale, aiuterebbe: ma è comunque una strada ripida, e per affrontarla non basterà la trazione integrale.
Riassumendo: modello industriale, automatizzazione, occupazione, trattamento salariale, analisi del prodotto e del mercato. Sono elementi che andrebbero messi in fila, e la cosa è del tutto evidente per qualsiasi osservatore anche poco informato: a maggior ragione dovrebbe esserlo per chi, in politica, ha scelto di occuparsi di lavoro e di industria.
Ed è questo, che intendevo dire: che girare intorno a un articolo dello statuto dei lavoratori, ammazzarsi nel dibattito se sia meglio averlo o non averlo in fabbriche che si fanno sempre più piccole, e che producono cose che vengono vendute sempre meno, ebbene tutto questo, rispetto alla complessità del problema, al mondo che ci circonda, a un futuro che è già presente quando non già passato prossimo, ecco, francamente è un po’ poco.

  1. Pingback: Un po’ poco | [ciwati]

  2. Ma infatti, va tolto e basta, ma non è colpa di Ichino se non viene tolto. Tolto ai “prossimi” lavoratori a tempo indeterminato, perché altrimenti non lo sarebbero mai, a tempo indeterminato. Non tolto ai lavoratori che lo sono ora.

  3. Bravo Filippini, hai capito al volo. Non che avessi dubbi.

  4. Inutile ammazzarsi nel dibattito, dici, t’ho preso in parola.

    Sarebbero figure retoriche un po’ vetuste, invero. E’ ben altro…

  5. E dire che una volta, avevo sentito dire da Angeletti che avrebbe scambiato ad occhi chiusi il nostro sistema con quello tedesco. Forse non sanno nemmeno di cosa parlano.

  6. Davide, senti cosa ha detto Bonanni (sentito con le mie orecchie) il 23.1: .”..bisogna alzare le tasse sui contratti co.co.pro, sulle ditte individuali, etc. GLI IMPRENDITORI SONO D’ACCORDO. Gli ammortizzatori per i giovani ed i precari NON devono essere in capo alla fiscalità generale, cioè al lavoro dipendente”.

    E poco dopo, Camusso: “…la storia sindacale è stata utile, CONCORDANO LE IMPRESE. Di per sé nuove regole (sfalciamento dei contratti co.co.co etc, ndr) non determinano occupazione e crescita. I contratti interinali (leggasi: lo schiavismo del precariato, ndr) nella P.A. sono necessari”.

    Brontosauri nel fortino. Bisognerebbe prestare attenzione a questa gente, traditrice dei propri stessi iscritti?

  7. Intendiamoci, io non sto aprendo il capitolo sull’articolo 18, e non lo faccio per precisa scelta. Io noto che le auto non si vendono, e che la capacità occupazionale del settore auto è in discesa. Che è in discesa quel mercato, mentre altri in cui siamo pochissimo presenti sono in crescita. Che ci sono fabbriche in Germania in cui gli operai sono pagati benissimo, ma sono pochissimi, e ci sono fabbriche in Cina dove gli operai sono tantissimi, ma sono trattati da schiavi. Il mondo è diventato molto grande, e quello che succede a Shenzen o a Wurth ha riflessi anche qui, e forse il dibattito deve tener conto di tutto, considerare molti aspetti, mentre a me pare che da noi il dibattito sia poverissimo, che in questo Paese si stia girando in tondo, e al centro di quel tondo non ci sia quasi più niente di cui discutere.

  8. Quando ha letto Ichino, credo fosse lunedì, ho pensato immediatamente al tuo post. Il problema che tu hai sollevato mi sembra proprio quello che in qualche modo Ichino elude. Il perché lo eluda mi fa pensare. Forse che la politica ha paura di ammettere che questo paese non ha più un futuro industriale? Al dibattito da allargare mi sentirei di aggiungere anche questo elemento: come è possibile immaginare un futuro di crescita sostenibile (economicamente, ambientalmente, socialmente) ridimensionando sensibilmente le prospettive industriali tradizionali. E soprattutto, forse che il concetto di crescita per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi era legato a filo doppio alla produzione industriale e, venendo meno la produzione, occorre ricalcolare anche i coefficienti di crescita ?? Saluti cari, e complimenti (as usual) per l’analisi, lbb

    Lbb
  9. Lbb, se fosse vero, suicidiamoci tutti. Come extrema ratio, prima, proviamo la riforma Ichino. Visto mai che…

  10. Io sono d’accordo con quello che dici e peraltro l’analisi che fai e` oggettivamente inconfutabile. Mi permetto di far notare, pero`, che la legge sulla flexsecurity parla anche di articolo 18, ma non solo. Anzi nella sua proposta di legge, nei suoi libri, nelle sue tesi, Ichino non si concentra sull’articolo 18 ne` si limita a parlarne; lui si` sostiene che vada abolito, ma e` una parte del discorso, non di certo il discorso. Chi ha strumentalizzato specie ultimamente l’intero dibattito verso quella direzione e si focalizza solo su quell’articolo sono altri, persone che non riescono a non trattare l’art18 come un tabù e che non riescono mai a stare neanche ad ascoltare quello che Ichino e tanti altri come lui hanno da dire in generale. Si parla anche di art.18? Ah no, loro allora non sono disposti neanche a partecipare al dibattito.

    Quindi sono d’accordissimo, mettersi a litigare sull’articolo 18 e` francamente indisponente e marginale, pero` cerchiamo anche di individuare chi parla solo di quello, vede solo quello e vuole discutere solo su quello e chi fa un discorso enorme in cui rientra anche, tra tante altre cose, una valutazione sul quell’articolo dello statuto dei lavoratori.

    Elia

     

  11. @ELIA

    Temo che il problema sia ancora più grave perché il dibattito si è evoluto in modo tale che oramai le osservazioni che tu fai sono alterttanto sostenibili a parti invertite: pensa a tutti quelli che guradano a Fassina come ad uno che vuole solo difendere il tabù dell’art. 18 senza considerare tutto l’insieme delle proposte che lui sostiene.

    Oramai siamo allo scontro puramente ideologico (proprio nella specificità di falsa coscienza) e alla assoluta personalizzazione del (presunto) confronto.

    Trovo la considerazione di Paolo (27 gen ore 17.12) totalmente condivisibile.

    FaustoB
  12. Comodo quella del confronto ideologico “specchio riflesso”.
    Non c’è niente di ideologico. Personalmente, ma credo tutti coloro che pensano a riforme, sono disposti a mettere alla prova dei fatti le proposte ed i convincimenti che si sono formati. Di dogmatico qui c’è solo il sindacato (a vari livelli) e la solita sinistra massimalista, in gran parte fuori dal PD, tra l’altro.

  13. Mi permetto solo due commenti.

    1. Definire la proposta Ichino “articolo 18″ é sostanzialmente scorretto.

    2. Perché si parla di articolo 18 e non di futuro industriale del paese? Mentre l’adeguatezza della regolazione é una variabile sulla quale opportune politiche pubbliche possono fare qualcosa di positivo (probabilmente molto in Italia), in merito alla struttura industriale del paese c’é ben poco che un pianificatore centrale possa fare con successo (perché politica industriale significa decidere a monte chi é bello e chi non lo é).

  14. @FILIPPO

    cosa ti fa ritenere di potere essere portavoce di tutti coloro che pensano a riforme?

    Io penso a riforme e non mi risulta di averti dato nessuna delega.

    Quando si dice l’ideologia….a volte…………

    In altri blog ci è accaduto di poterci scambiare qualche opinione in modo un po’ più costruttivo, semplicemente attenendoci a quello che ciascuno di noi dice (scrive) e non a quello che ciascuno di noi pensa che l’altro pensi.

    E’ davvero così tanto difficile stare su questo piano?

    FaustoB
  15. Non è questione di essere portavoce. Chi pensa a riforme in modo sensato e non “per moda” ha per forza questo abito mentale, di mettersi alla prova dei fatti. Non cambia per cambiare, cambia muovendo da cause e perseguendo un obiettivo.

    Sostanzialmente, il metodo scientifico, da Bacone a Popper, oltre non vado per mie ristrettezze intellettuali…
  16. (sembro pedante, ma non è vero: sono pedante)