In treno, al bar, nella sala d’aspetto d’un dentista, ma soprattutto in ascensore, capita d’imbattersi in occasionali interlocutori con i quali, per pura educazione, si scambiano frasi di circostanza: le stagioni non sono più quelle di una volta, non si sa più cosa mettersi, a Montecitorio rubano tutti, ma guarda come rincarano i prezzi, mangiare troppa carne fa male. Sono parole di pura convenienza fonica: scorrono tra noi e il prossimo con la leggera, fresca inutilità delle cose formali. Un solo uomo al mondo ha voluto e saputo dedicare allo studio e all’approfondimento di questo vuoto pneumatico la propria esistenza: quest’uomo è Francesco Alberoni.
(Michele Serra, l’Unità, 1987)
Mille anni prima di internet, e molto prima che fosse parte della vita di noi tutti l’incessante pubblicazione delle banalità che ogni giorno ci succedono, un uomo riuscì a prendere quei luoghi comuni, a trasformarli in una rubrica, e a farsela pubblicare sulla prima pagina del Corriere, ogni lunedì, per 38 anni: praticamente, una vita. Resistendo a ogni cambiamento – di direttori del Corsera, del Paese, del mondo – replicando senza vergogna se stesso e cristallizzando la realtà come nelle barzellette della Settimana Enigmistica, in cui l’uomo è sempre pantofolaio, la donna sempre spendacciona, oggi, ieri e cento anni fa: non importa. L’importante, invece, è ripetere con convinzione a se stessi e a tutti, da pulpiti comodi e ben illuminati, che nulla cambia, nulla si discosta dal cliché, mai. Anzi, che la novità è sempre pericolosa, e da essa sempre ci si deve guardare diffidando con sospetto: poiché in caso contrario, a ben guardare, tra le prime cose da cambiare ci sarebbero quelli come lui e le rispettive posizioni di rendita.
Non è nemmeno la prima volta che mi trovo a occuparmene, in un certo senso: era più o meno il 1991 quando, in un teatro pieno di adolescenti, studentello impertinente, chiesi la parola, mi alzai dal centro della platea e mi permisi di chiedergli conto delle inconsistenti banalità che stava propinandoci, insistendo talmente che lui, ad un certo punto, si infuriò e abbandonò il palco, tra lo sconforto degli organizzatori, l’irriverente boato dei miei coetanei e la perfida soddisfazione mia personale. Rispetto ad allora, ho il doppio degli anni e la metà dei capelli (ma sono rimasto rompicoglioni uguale, evidentemente), ed è cambiato il mondo intero: ovvio, non che questo abbia mai turbato l’autore, né a quanto pare ha mai minimamente influito, in costante negazione della realtà, sulla stesura della sua rubrica del lunedì.
Finisce oggi, e questa è la buona notizia: fuori uno, ma purtroppo solo uno. Non che mi stia lamentando (uno è già meglio di nessuno) però sarebbe ora che anche altri – di quelli che il compianto Berselli chiamava venerati maestri – seguissero l’esempio, magari senza farci aspettare altri vent’anni.
Fa abbastanza impressione leggere che l’opinione di Serra, che nel frattempo è invecchiato pure lui, è addirittura del 1987, come se da allora in tutti questi anni tutto fosse rimasto immutato.
Solo per la precisione, mi sembra che valga la pena di riportare anche come chiudeva quel fantastico pezzo di Serra: “Così, settimana dopo settimana, il Corriere ci propone la rubrica di Alberoni: l’unico articolo, nella storia del giornalismo, che abbia già incartato l’insalata prima ancora di essere dato alle stampe”.
Tra le tante colpe dell’uomo, ricorderei anche l’averci imposto la presenza dell’altrimenti perdibile moglie Rosa, e l’esser stato un dimenticabilissimo consigliere anziano facente funzioni di presidente della Rai, in anni recenti. Rendiamoci conto.
Porgo agli estimatori del genere un invito a seguire i commenti – per ora sette pagine – postati dai lettori del Corsera in coda al suo triste annuncio. Molto istruttivi.