17 GIUGNO 2013

L’anatra zoppa

Più o meno esattamente quattro anni fa, nel giugno del 2009, a questo punto della vicenda il congresso del Pd era già stato annunciato, le regole definite, e i candidati si sarebbero palesati ufficialmente nei giorni successivi. Di Bersani si sapeva, aveva ricevuto qualche pressione per sfidare Veltroni nel 2008, ma non volendo rompersi il muso contro il candidato sostenuto coram populo aveva preferito aspettare il giro successivo che era giunto molto più rapidamente del previsto. Franceschini era stato eletto dall’Assemblea Nazionale dopo le dimissioni di Veltroni, aveva garantito che si sarebbe limitato a una reggenza temporanea ma cambiò idea il 24 giugno. La candidatura di Ignazio Marino fu ufficializzata il 4 luglio dopo un complicato balletto in cui Chiamparino si fece da parte e Debora Serracchiani scelse di schierarsi con Franceschini. La fine del tesseramento fu fissata per il 21 luglio, contestualmente i candidati presentarono firme e documenti congressuali: a settembre si partì con la discussione dei circoli.

Oggi è il 17 giugno, e si riunisce per la prima volta la commissione incaricata da Epifani della scrittura delle nuove regole congressuali. Parte già con uno strascico di polemiche, per le ultime parole di Bersani e dei suoi, per la loro proposta di mettere Zoggia o Stumpo a presiederla e per la contrarietà di altri, tra cui i renziani (rappresentanti di Civati, nella commissione, non ce ne sono). A parte qualche enunciazione di principio fatta da Epifani – “partire dai territori” – che però è tutta da spiegare, sulle regole è notte fonda, e non solo sulle regole.
Infatti, se a metà giugno ancora non siamo in grado di dire nemmeno approssimativamente quali saranno i candidati (Civati a parte), molto semplicemente, vuol dire che stiamo parlando del nulla.

I motivi sono vari – le regole, e la presenza di primarie aperte, non sono indifferenti – ma uno su tutti è il passaggio del Pd da partito teoricamente contendibile a praticamente ingovernabile. Contendibile lo era, almeno sulla carta, anche se di fatto i patti di sindacato tra le correnti più strutturate hanno sempre garantito maggioranze inscalfibili. Nel tempo, tra logoramenti e scomposizioni, quegli equilibri sono cambiati. Dopo il congresso del 2009, Franceschini trovò rapidamente un accordo con Bersani, e lo stesso Marino ammorbidì col tempo la sua posizione critica nei confronti del partito. Cose abbastanza normali, in un partito che esce da un congresso e si mette al lavoro sotto una nuova leadership confermata dagli elettori. Bersani più Franceschini, al netto di un po’ di veltroniani irriducibili – qualcuno ricorderà la nascita e la breve vita di MoDem – nel 2009 valeva l’87 per cento (teorico), e in quella percentuale bulgaro-emiliana c’era dentro quasi tutto il resto: bindiani, lettiani, fioroniani, eccetera. A dicembre del 2012, nello scontro tra Bersani e Renzi, tutta quella roba valeva il 60 per cento, anzi, ci arrivava solo con l’apporto esterno e inedito di Vendola.

Quella era la maggioranza bersaniana, ed è da capire cosa ne sia rimasto oggi, dopo il brutto risultato elettorale, dopo il logoramento avvenuto nei passaggi di non-dialogo con i grillini, dopo i pasticci di gestione avvenuti sull’elezione del Presidente della Repubblica. Da un certo punto di vista, pur essendosi dimesso, Bersani ha mantenuto un controllo notevole sul Pd. Anche dal punto di vista simbolico – si è fatto dare un ufficio al Nazareno, fatto inedito per un ex segretario – non è successo che “dopo Bersani c’è il Pd”, come ripeteva, ma “dopo Bersani c’è Bersani”.
Il fatto nuovo è la spaccatura tra gli ex diesse, non perché tra gli ex diesse non vi siano mai state lotte anche furibonde, ma perché si consumavano nel loro perimetro, da cui usciva sempre e comunque una decisione magari sofferta, ma univoca. Ed è così facendo, discutendo tra loro ma schierandosi uniti, che hanno sempre mantenuto il controllo del partito. Questa volta pare andrà diversamente, nel senso che la frattura tra Bersani e D’Alema è, a quanto sembra, irreparabile, e porterà per la prima volta ex comunisti a fare scelte congressuali diverse.

Semplificando, D’Alema pare fermamente intenzionato a puntare su Matteo Renzi, e a lasciar fare Cuperlo per presidiare un’area che in qualche modo gli è ancora legata, mentre Bersani con tutta evidenza non ne ha alcuna intenzione, per ragioni che a questo punto sembrano anche personali, non solo politiche.  Per entrambi è un passaggio comprensibile: poche cose sono più lontane da D’Alema dello stile metaforico di Bersani, che i due si siano trovati dalla stessa parte della barricata è stato solo per opportunità. Finita l’opportunità, gli schieramenti cambiano. Anche Renzi è lontanissimo dalla forma mentis di D’Alema (tutto è lontano da D’Alema, tranne D’Alema), ma questo è un fastidio cui evidentemente D’Alema porrà rimedio dopo aver vinto, come del resto ha sempre fatto. Quanto a Bersani, non mi sembra semplicemente nel mood di sostenere Renzi, e credo gli imputi, a torto o a ragione, parte dei suoi guai.

Ma, tornando ai meri numeri, la prima cosa che sarebbe importante da capire è cosa farà Renzi: io – lo dico nel modo più neutro che mi è possibile – penso che non abbia alcun desiderio di fare il segretario del Pd. Come peraltro ha sempre sostenuto pure lui. Non è il suo ruolo, e c’è poco altro da dire. A questo punto, però, non ha molte altre possibilità, e se correre a segretario è un modo per stare nella partita che gli preme, quella della prossima premiership, beh, cederà alle pressioni dei suoi e lo farà. Se invece si presenterà una scusa che lo possa tenere fuori senza pregiudicargli il vero traguardo, se ne terrà lontano. Con lui o senza di lui, comunque, il congresso sarà parecchio differente.

Nel caso, i sondaggi su Renzi sono da un po’ di tempo molto promettenti. Ma non è indifferente ciò che gli si disporrà intorno. Ad esempio, ci sarà un candidato di Bersani (se non Bersani stesso, che però sarebbe davvero clamoroso, oltre che la tremenda, logorante riproposizione di quanto visto a dicembre). Speranza non pare suscitare particolare… speranza, e la scelta potrebbe banalmente ricadere su Epifani, con tutti i vantaggi che comporta essere candidati al congresso di un partito mentre lo si guida: del tipo che le altre mozioni si arrabatteranno a chiedere l’accesso ai database degli elettori, e intanto i bersaniani faranno telefonate a tappeto dalle sedi delle federazioni, come peraltro succede ogni volta, a ogni livello.
La vera domanda, a questo punto, ha a che fare con la solidità dei sondaggi di cui sopra una volta applicati al particolare sentimento del mitico corpaccione democratico: il 60 per cento di Bersani alle primarie di dicembre si è ristretto, probabilmente tantissimo, ma di quanto esattamente?

Ecco, quando si parla di Pd bisogna fare sempre molta attenzione nel dare il giusto peso all’hype mediatico, e vale anche per Renzi. Io stesso non so spiegarmi perché, ma posso garantire che resiste, nel partito, una percentuale non indifferente che ha dopotutto mantenuto la sua stima per Bersani. E’ gente convinta che sia stato tradito, che ci troviamo in questa situazione per via di un complotto internazionale dei poteri forti che hanno prima portato al governo Monti, e poi affossato il governo del cambiamento. Che ci sarebbero pure un paio di ragionamenti oggettivi da fare, sulla questione, ma anche fosse non c’è complotto che possa giustificare la nostra disastrosa campagna elettorale. Poi c’è la questione del governo, che Bersani ha comunque occupato, e in qualche modo tenuto su un binario a lui congeniale proprio mentre stava perdendo la segreteria: e anche in questi giorni in cui parla di maggioranze variabili, si guarda bene dal mettere in discussione Letta (e, indirettamente, Franceschini, che al Governo si è messo bello comodo). Come a dire che un candidato bersaniano non è minaccioso per Letta, mentre Renzi, a prescindere da qualsiasi patto del gimme five, lo sarebbe inevitabilmente, non c’è dichiarazione di lealtà che tenga.

Quindi, ecco il punto: malgrado tutto, si trattasse di Epifani che pure non è certo entusiasmante, credo che ragionevolmente un candidato bersaniano potrebbe stare intorno al 30 per cento. Se davvero D’Alema non fermasse la mozione Cuperlo, sarebbe certo velleitaria ma pescherebbe in una certa area sinistra che subisce la fascinazione intellettuale, l’antidivismo, la socialdemocrazia come orizzonte novecentesco e passatista, e insomma potrebbe anche fare tra il 5 e il 10 per cento.
Poi c’è Civati, sul quale certamente io ho un parere molto di parte, ma ecco, credo sia un pochino sottovalutato. Nel senso che, per citare un esempio che ricordo bene, essendo stato tra quelli che vi hanno concorso, nel 2009 Ignazio Marino, che aveva un ottimo portato personale ma una figura politicamente molto da costruire rispetto al ruolo di segretario, fece il 13 per cento. E fidatevi, io dubito molto che Civati faccia meno di così: in realtà penso che il suo risultato sarà molto ma molto più alto, ma per capirci.

Fatte due somme, tra candidato bersaniano, Cuperlo, Civati, mettiamoci pure qualche Adinolfi pari all’un per cento o quel che è, si va oltre il 50 per cento, e forse anche di parecchio. Ovvero, nel caso di una candidatura di Renzi, con tutto il rispetto per i sondaggi attuali, pur dando per buono che arrivi primo (il bandwagoning dell’opinione pubblica nei suoi confronti avrà comunque molto peso, e non mi riferisco a Briatore), c’è il rischio molto concreto che si ritrovi sotto il 50 per cento, insomma che la sua mozione sia la più grande tra le minoranze. Nel caso, anche senza voler immaginare ribaltoni inguardabili, succederebbero un po’ di cose: primo, per essere effettivamente eletto segretario avrebbe bisogno dei voti di una mozione altrui. Nel caso fossero quelli di Cuperlo, gentilmente concessi da un D’Alema in questi giorni così voglioso di sostenere Renzi, per Renzi significherebbe che D’Alema lo tiene nel taschino. E non credo proprio che questo sia nei desideri di Renzi (o dei suoi elettori), in ogni caso dubito che l’idea lo possa mandare a letto tranquillo, la sera.
Inoltre, dato se possibile ancor più importante, oltre al mutamento del suo profilo caratteristico – da segretario del Pd, Renzi passerebbe le giornate a occuparsi di questo partito di pazzi e potrebbe perdere il suo appeal verso quel che ne sta fuori – un congresso da cui la mozione Renzi uscisse senza una maggioranza autonoma – e schiacciante, aggiungo – appannerebbe la sua leadership oggi così popolare in tutto il Paese. Insomma, basi non proprio promettenti su cui costruire l’eventuale campagna elettorale se nel 2014 dovessimo rivotare alle politiche.

Questo, in sintesi – scherzo – il motivo per cui oggi è il 17 giugno, c’è una misteriosa commissione che si riunisce per la prima volta col mandato di fare non abbiamo capito cosa, il congresso dovrebbe praticamente partire e invece non sappiamo neppure vagamente quali saranno le posizioni in campo. Da un certo punto di vista, mi sembra di poter dire che il pasticcio inverecondo manovrato da Bersani abbia dato a Renzi la possibilità di stare al centro della scena per settimane, mentre se molto banalmente il congresso fosse stato convocato un mese e mezzo fa, come era previsto dallo Statuto, oggi sarebbe tutto molto più chiaro e saremmo tutti molto più sereni sul nostro destino: e se non è chiaro, è proprio quell’incertezza il motivo per cui parliamo di robe astruse e quasi tutti (di nuovo, tranne Civati) stanno copertissimi.
D’altro canto, infine, mi verrebbe da stendere un velo pietosissimo su quanto io per primo ho raccontato oggi, perché spiega bene come ormai nel Pd non si faccia più nemmeno finta di discutere del merito delle cose: come deve essere un congresso, a cosa serve un segretario, cosa succede quando una stagione politica finisce, come se ne apre una nuova, tutto questo non conta un fico secco, e si sbanda senza nemmeno più un pochino di pudore da una posizione all’altra, solo e sempre in base alla convenienza di chi è coinvolto.

Faccio una previsione facilissima, ma da tutto questo non uscirà niente di buono.