Pare che l’industria del vino australiano stia andando a rotoli, con un crollo nel valore delle importazioni su un mercato strategico come quello americano dal 15 al 25 per cento, in un solo anno. Un po’ è colpa della crisi, un po’ sono gli incendi e i periodi troppo lunghi di caldo torrido.
L’articolo su Slate definisce la situazione senza mezzi termini:
Foster’s may be Australian for beer (mate); it appears that screwed is now Australian for wine.
Quel che non sapevo è che tra i complici del momentaccio ci sono gli shiraz Yellow Tail, che hanno inondato il mercato con bottiglie bevibili e dall’irresistibile rapporto qualità-prezzo (7 dollari in America, 5 euro da noi) e un’etichetta subito riconoscibile. Le cifre parlano da sole: quattro milioni di bottiglie vendute ogni anno nel solo mercato Usa. Io stesso ne ho bevuto parecchio, dello shiraz cangurato, e credo che in molti possano ricordare di averne visto almeno una bottiglia, da qualche parte.
Questo successo ha però spinto una serie di produttori australiani ad affollare gli scaffali con vini ancora più economici, piacevoli e profumati, ma frivoli e privi di quel valore aggiunto e di quella complessità che si ottiene solo da terroir di maggior pregio. Alla base di questi easy wines la stessa idea di marketing di Yellow Tail: e quindi è stato tutto un fiorire di etichette zoologiche autoctone a base di coccodrilli, dingo, koala e persino pinguini. Sì, pinguini.
Peccato che nel frattempo siano esplosi i produttori cileni, argentini e sudafricani, ancora più competitivi, fatto che ha permesso ai consumatori di scegliere se dar fiducia a una fascia ancor più bassa o tornare alle bottiglie italiane e francesi, spendendo un po’ di più.
In tutta questa faccenda, l’aspetto che mi ha davvero sorpreso – ma non avrebbe dovuto, dopotutto viviamo tempi globalizzati – è che la Yellow Tail non è neppure, strettamente, un’etichetta australiana, ma nasce dall’iniziativa di un immigrato siciliano nel New South Wales, Filippo Casella.