Fino a qualche tempo fa, aprendo un numero qualunque di Superman e o dell’Uomo Ragno, era inevitabile imbattersi nel riassunto iniziale: "Colpito alla testa da un carburatore radioattivo, il timido tassidermista Joseph Johns scopri improvvisamente di poter far partire le auto in panne con la sola forza del pensiero. Decise di usare questo suo dono per aiutare l’umanità e combattere i malvagi, e divenne così Capitan Carburator".
I fumetti sono stupidi, secondo molti, ma già negli anni Ottanta qualcuno ha iniziato a chiedersi se davvero fosse necessario iniziare ogni storia perdendo tempo a spiegare la rava e la fava: cosa noiosa, oltre che avida di spazio. Dettaglio non marginale, su albi di 28 pagine.
Nel caso di personaggi celebri, si trattava senza dubbio di un esercizio inutile: davvero c’è qualcuno che non sappia chi è Batman, che i suoi genitori sono stati ammazzati, che lui ha ereditato una fortuna e ha deciso di usarla per lottare contro i cattivi? C’mon.
Ad un certo punto, un trio di autori underground latinos, i Bros Hernandez, decisero di spostare quel confine ancora un po’ più in là, e pensarono che il fumetto poteva essere usato anche per raccontare storie adulte – come il romanzo, il cinema e tutte le altre forme d’espressione – trattando i lettori come tali e lasciando che fossero loro a dar credito alla storia e a riempire i buchi.
Lo stupido fumetto, in questo, è talmente cambiato da aver dato lo spiegone per acquisito non solo nelle graphic novel, ma anche nelle pubblicazioni più mainstream. Il cinema, evidentemente, non ce la fa, come fa notare un bell’articolo sul New Yorker: parlando del nuovo Star Trek, e dell’ampia prima parte in cui si raccontano i natali di Jim Kirk, Anthony Lane si chiede se ce n’era davvero bisogno, e allargando il discorso si domanda se non sia un modo di fare un po’ offensivo nei confronti del pubblico.
In all narratives, there is a beauty to the merely given, as the narrator does us the honor of trusting that we will take it for granted. Conversely, there is something offensive in the implication that we might resent that pact, and, like plaintive children, demand to have everything explained. Shakespeare could have kicked off with a flashback in which the infant Hamlet is seen wailing with indecision as to which of Gertrude’s breasts he should latch onto, but would it really have helped us to grasp the dithering prince?
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