Ecco una storia illuminante per chi non sa bene cosa pensare a proposito del dibattito sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti.
Avendo sempre operato nelle serie inferiori della categoria – la stampa locale e quella specializzata – non ho da raccontare aneddoti di importanza paragonabile. Ho però un piccolo episodio, che ripeto spesso quando mi chiedono cosa penso dell’Ordine: nei miei primi anni di mestiere stavo in un piccolo e neonato bisettimanale biellese (Biella ha la peculiarità di avere tre bisettimanali che escono a giorni alterni, e nessun quotidiano, caso credo piuttosto unico).
L’editore era un magnate vercellese della raccolta rifiuti – giuro – e dopo un inizio in pompa magna (uscita quotidiana, tre sedi, pagine nazionali e locali), aveva rapidamente esaurito i capitali. Entrarono nuovi soci, si chiusero le redazioni distaccate, ci si focalizzò sull’informazione solo territoriale, si passò da sette uscite su sette ad, appunto, un più gestibile due su sette.
Io avevo iniziato come collaboratore esterno mentre finivo il liceo, ed ero poi diventato redattore degli spettacoli: la proprietà non poteva sostenere il peso economico delle contrattualizzazioni, per cui proponeva uno stipendio ridotto (io guadagnavo circa un milione e quattrocentomila lire al mese, lorde, per tredici mensilità, alla metà degli anni ’90) e l’intestazione di una piccola quota societaria del giornale. Nessuno di noi era professionista, qualcuno stava per diventare pubblicista, tutti risultavamo “soci prestatori d’opera”.
Per chiarire il concetto, basti sapere che quando un concorrente ci mandò un’ispezione Inps, tutti andammo a farci interrogare sostenendo che l’esercizio giornalistico non era la parte prominente del nostro lavoro, che fungevamo solo da coordinatori per contenuti scritti da collaboratori esterni, che occupavamo la maggior parte del tempo lavorativo svolgendo altre funzioni. Io, per esempio, risultavo se non sbaglio responsabile dell’archiviazione del materiale fotografico. Il mio caporedattore – anche se tecnicamente non avrei potuto chiamarlo così – figurava invece come addetta alla pulizie. Nella realtà, ad esempio nel mio caso, io di collaboratori non ne avevo nessuno, e la pagina degli spettacoli me la scrivevo tutta da solo (ma firmavo solo un pezzo per numero).
Immagino che il trucco, per quanto irreale, dovesse essere ben congegnato, visto che l’Inps chiuse l’inchiesta e non ci furono ripercussioni rilevanti.
Nel frattempo i concorrenti vivevano ancora gli ultimi fasti del periodo d’oro del giornalismo: tutti assunti, tutti contrattualizzati, tutti professionisti. E tutti tutelati: ogni tentativo di licenziamento sfociava in cause con risarcimenti da centinaia di milioni. A fine anno arrivavano passivi da mezzo miliardo, e gli azionisti di riferimento (la curia da una parte e la locale associazione industriali dall’altra) pagavano senza clamori, e tutti i fortunati colleghi della concorrenza erano davvero convinti che si potesse andare avanti così senza curarsi degli scricchiolii sempre più forti che provenivano da ogni dove.
Ogni tanto qualcuno parlava di fusione, della creazione di un unico quotidiano con una comproprietà diffusa. Ma nessuno degli interessati voleva perdere il proprio personale strumento di controllo sociale, nel caso remoto che gli servisse. Parentesi: vent’anni fa il tessile tirava, le fabbriche producevano, la gente lavorava. Oggi le fabbriche sono chiuse, in gran parte, ma purtroppo anche i giornali contano molto meno: altro che “strumento di controllo sociale”. Fine parentesi.
Ad un certo punto, uno dei concorrenti (con cui, tengo a dire per chiarezza, ho felicemente collaborato dieci anni dopo) passò a una forma di attacco un po’ più diretta, e tra le altre cose scrisse di noi sostenendo che l’informazione equivaleva a una prestazione professionale, andava fatta da professionisti, così come i malati li curano i medici e non gli infermieri. Dove noi sfigati ovviamente eravamo gli infermieri e loro erano i luminari. Oggi una polemica del genere sarebbe talmente superata da quel che accade ed è accaduto grazie a internet che non provocherebbe nemmeno una pernacchia. Noi invece ci incazzammo parecchio, e ne uscì uno di quegli odiosi botta e risposta tra giornali che fanno dire al lettore “ma non potete telefonarvi?”.
Arrivati a questo punto, con cause per diffamazione che stavano per partire tra una testata e l’altra, come una visione, finalmente l’ordine regionale del Piemonte, la Subalpina, si palesò.
Ora, se avete avuto la pazienza di leggere fin qui, se vi è sembrato strano che persone sottopagate che ogni giorno cercavano di fare informazione dovessero spacciarsi per bidelli per non perdere il misero stipendio, se insomma avete provato non dico simpatia ma almeno pena per quanto descritto, ebbene allora potreste immaginarvi che l’ordine sia piombato su di noi come la Croce Rossa nel Darfur, per salvarci, per darci coperte e thermos di caffè caldo.
Invece no.
Venne da noi un figuro – che per pietà non cito, ma che negli anni ha pure fatto una certa carriera – e ci disse: «Vedete, qui lavora una ventina di persone, nessuna delle quali è iscritta all’ordine dei giornalisti. Se domani un terremoto apre una voragine e vi ingoia tutti, per noi i posti di lavoro persi sono zero».
(Lascio un momento per metabolizzare il cinismo, l’arroganza, la disumanità che stanno dietro a parole di questo tipo, e a chi le pronuncia. Fatto? Bene, proseguiamo).
Io pensai: «E dovrei forse desiderare di far parte della stessa categoria di questo individuo?». Aggiungo che proprio in quei giorni l’Inpgi discuteva se fosse giusto continuare l’estensione della copertura dentistica anche ai familiari degli iscritti. Per dire.
Epilogo. Quel che è successo in pochi anni è chiaro a tutti: chi non era in regola oggi si è forse dato una sistemata? Risposta: no. Al contrario, quegli editori che prima erano ben disposti a coprire grossi buchi di bilancio ora si ritirano anche di fronte a quelli piccoli; chi aveva costruito grosse strutture piene di professionisti in regola e con contratti adeguati li ha mandati a spasso un po’ alla volta, e oggi fa scrivere tutto agli esterni. Nel frattempo, la rete si è riempita di testate on line regolarmente iscritte che cercano collaboratori disposti a scrivere gratis.
Non voglio dire che sia un bene: ma che la corda sia stata tirata fino a spezzarsi, questo è sicuro.