20 MARZO 2009

A volte un film è solo un film

E’ lecito girare un film in Sicilia senza affrontare il tema della mafia? Si può raccontare una storia ambientata in Ruanda senza renderla una tesi sui genocidi e sulle lotte etnico-tribali? In un articolo recente Arundhati Roy contesta a Slumdog Millionaire la mancanza di contestualizzazione, il difetto di usare i drammi dell’India come scenario e non come tema, facendo così dell’India stessa un mero paesaggio privo di profondità e di interpretazione.
Con tale argomento, però, pure lei cede a un meccanismo intellettuale che non è suo, ma si potrebbe quasi definire colonialista, in quanto spiccatamente europeo. Il difetto maggiore della critica nel Vecchio Continente – non solo quella cinematografica – è infatti la costante, forzata ricerca dell’intellettualizzazione quando non della politicizzazione di un’opera.
Rambo può piacere o meno, ma giudicarlo solo in base alla sua capacità di raccontare il Vietnam limita la libertà dell’autore di narrare una storia mettendola su un piano più importante rispetto al contesto e alle sue stesse opinioni. L’idea che la cifra autoriale emerga solo dalla tesi dell’opera, tralasciando tutti gli elementi tecnici, stilistici e soprattutto la capacità di far girare a dovere i meccanismi narrativi, e il convincimento che senza tesi non ci sia neppure l’autore, è ottusa, snob e sostanzialmente insoddisfacente ai fini dell’analisi.
E’ un malcostume culturale da non sottovalutare, perché porta gli stati europei a finanziare film inguardabili, a patto che parlino di poveri, disoccupati, immigrati, dimostrandosi correttamente impegnati. L’Italia era una potenza cinematografica perché aveva la commedia a sostenere il neorealismo, aveva Fellini ma anche Sergio Leone. Incaponendosi nella ricerca dell’impegno sociale il cinema di genere si è estinto, le maestranze si sono ritrovate disoccupate e l’industria è divenuta una stella morta e fredda, un buco nero che risucchia risorse senza più avere la capacità di brillare.

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